Gnocchi d’altri tempi - il racconto di Giordano Zenari per il contest
Pubblichiamo uno dei racconti pervenuti per il contest gastroletterario "Il profumo dei ricordi".
Ricordiamo a tutti che il termine per l'invio dei racconti e la registrazione delle ricette è il 30 giugno. Trovate il bando qui.
A questo link invece la ricetta del racconto 
 
Le mani si muovono veloci sopra l’asse di legno scuro. Vanno su e giù ribaltando e rovesciando l’impasto crudo con notevole maestria. Sono mani sapienti, antiche. La farina ha riempito i segni lasciati dal tempo, riportandole ad una giovinezza priva di increspature. A quando hanno fatto quell’operazione per la prima volta, molti anni prima, sotto lo sguardo attento di chi le ha pazientemente istruite. Una volta finito prendono un affilato coltello e cominciano a tagliuzzare minuziosamente l’amalgama dormiente, modellando dei piccoli cubetti che assomigliano a fratelli. Mia madre sa bene cosa significa dare alla luce. Cosparge un vassoio con la soffice polverina bianca e li deposita delicatamente nella loro culla. «Buonanotte» sembra quasi sussurargli. Si asciuga con un gomito la fronte spossata e osserva soddisfatta il frutto della sua fatica. «Come sono belli» pensa. Dopo alcuni istanti solleva il coperchio della pentola e lascia cadere i neonati nell’acqua bollente, brodo primordiale necessario per il sacrificio pasquale. Bastano pochi minuti perché lo spirito di sopravvivenza li spinga a tornare in superficie. Quando finalmente boccheggiano spaventati in cerca di aiuto, le stesse mani che li hanno forgiati accorrono per salvarli, ripescandoli con un mestolo che li deposita nella loro fatale dimora. Il sangue che li avvolge è salsa di pomodoro, simbolo impregnante del fatale destino a cui tutti insieme sono chiamati. Il pranzo è servito. Mia madre mi sbatte il piatto sotto il naso e mi ordina: «Mangia». Spaventato osservo i poveri anellini di patate giacere morenti sulla porcellana bianca. Dopo essere stati amorevolmente allevati e accuditi, non sembrano esserci possibilità di salvezza per loro. Afferro la forchetta e comincio ad infilzarli titubante, complice involontario della loro amara fine. Cercano di sfuggirmi, ma sanno che è tutto inutile. «Sono buoni» affermo dopo averli masticati a lungo. Mia madre non si volta, sta sistemando il suo piano di lavoro. Immerge le mani sotto l’acqua tiepida del lavello e le libera dalla farina. Dopodiché le asciuga silenziosamente sul retro del grembiule bianco, depositando gli attrezzi del mestiere nella lavastoviglie aperta. La tecnologia a volte aiuta. Infine solleva la pesante asse di legno ancora sporca e si reca senza dire una parola sul pogiolo. Raggiunge il baratro e fa scivolare nel vuoto la superficie carica di trucioli, per poi depositarla sul tavolo vuoto, al sole, dove riposerà fino al prossimo parto. Come faceva sua mamma, e sua nonna prima di lei. Così andava fatto. Nei secoli dei secoli. Certe cose non è possibile raccontarle, occorre semplicemente apprezzarle con il palato. Si ferma solo un istante, per ammirare la farina che ancora colora il ripiano. Quella deve rimanere lì, non è possibile toglierla. La accarezza per un’ultima volta, nostalgica. Dopodiché rientra in casa richiudendo alle sue spalle la porta
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