La ciambella - il racconto di Bianca Maria Bellei per il contest
Pubblichiamo uno dei racconti pervenuti per il contest gastroletterario "Il profumo dei ricordi".
Ricordiamo a tutti che il termine per l'invio dei racconti e la registrazione delle ricette è il 30 giugno. Trovate il bando qui.
A questo link invece la ricetta del racconto 

Che mi piaccia cucinare si sa. Del perché mi piaccia non credo sia noto a tutti.
La mia passione per la cucina ha radici nelle mie radici, viene dai miei genitori, emiliani. Precisamente nativi di Modena, della sua campagna. E per un emiliano il cibo è cosa sacra, è qualcosa che va ben oltre la necessità di alimentarsi, è un intreccio di valori, fatiche, storie, passione e affetti. Insegnandoci a mangiare, a riconoscere i piatti della loro terra, a crescere nell'orto e nel pollaio ciò che poi finiva sulla nostra tavola, ad avere rispetto del cibo, hanno insegnato ai  miei fratelli e a me a crescere, come persone. A proposito, se in queste righe mi capiterà di parlare spesso al plurale, non sarà per  atteggiarmi ma perché nei miei ricordi ci sono anche loro, i miei due fratelli. Anzi sono loro i depositari più fedeli della nostra storia, e ancor oggi c'è sempre un “noi” nel riportare le esperienze personali di ciascuno. La mia memoria, la nostra memoria, è piena di profumi. Dall'odore delle galline da cui prendevamo le uova, a quello delle albicocche calde che raccoglievamo dall'albero, al profumo dell'uva che a fatica cresceva attorno ad un piccolo pergolato davanti casa, a quello delle aromatiche che al tuo passaggio, ti accarezzavano i vestiti per sprigionare il meglio di sé, come per farti strada, per inchinarsi al tuo esserci. E poi il profumo del brodo della domenica mattina, in cui si distinguevano gli odori del nostro orto e che, a seconda delle occasioni, faceva da sostanza al risotto con lo zafferano o abbracciava i tortellini di Natale. Quello del ragù, che sobbolliva per ore e si scioglieva  in bocca in quelle cucchiaiate prese di nascosto prima che qualcuno scoprisse il tuo goloso segreto. E poi c'è un altro profumo che ho ancora nelle narici, quello della ciambella. Dolci a casa nostra non se ne facevano spesso. Si faceva la crema gialla (volgarmente detta crema pasticcera) e si faceva la ciambella con quel lievito il cui nome evocava il Paradiso.  Altre marche non erano ammesse. La ciambella, non era una ciambella, era "la" ciambella. Nemmeno si considerava il fatto che ne potessero esistere altre ricette o varianti, si seguiva quella che si trovava dietro la bustina del suddetto lievito.
La mamma la impastava a mano nella terrina bianca di ceramica, quella con le pareti esterne ondulate, utilizzando naturalmente le uova tiepide del nostro pollaio.
Mio fratello Andrea poi, il piccolo, spuntava prontamente al suo fianco per intingere il dito in quell'ammasso soffice e buonissimo e per assolvere con serietà al suo compito di leccapentola ufficiale, una volta che l'impasto veniva fatto scivolare  nello stampo. E qui scatta il colpo di scena. La nostra ciambella era rotonda come tutte le ciambelle esistenti sulla faccia della terra? No! La nostra ciambella era rettangolare! Sì, perché per farla veniva usato lo stampo in acciaio che si usava per le lasagne, ben unto di burro. Altro che carta forno! Altro che corsa a comprare l'ultimo modello di stampo, del colore giusto e della misura giusta. Anche nella forma la nostra ciambella era unica, originale, oserei direi, inimitabile. Poi una pioggia di semplice zucchero o di codette colorate quando si era in vena di stravaganze, codette che  rincorrevamo leccandoci le punte delle dita perché nessuna andasse perduta! Infine il profumo, intenso, esplosivo che man mano procedeva la cottura, usciva maestoso dal forno invadendo ogni dove.  La ciambella ne usciva in tutto il suo splendore, alta, sempre soffice, appena crepata qua e là dal calore. Veniva ricoperta con un canovaccio o meglio con un “burazzo” come lo chiamavamo a casa nostra ed iniziava il tormento del raffreddamento. Non si poteva assolutamente toccare fino a che non fosse stata completamente raffreddata. Vero che io appartengo a quella generazione che “non si fa il bagno se non sono passate tre ore dall'ultima briciola che hai ingerito”, ma pareva proprio che se avessimo assaggiato la ciambella prima di un deciso abbassamento della sua temperatura, al nostro povero apparato digerente, sarebbe accadute cose inenarrabili! E finalmente il momento dell'assaggio. Delle belle fette, spesse, preferibilmente non quelle agli angoli. La mangiavamo a merenda, a colazione e anche a scuola. E sotto al burazzo, il coltellino era sempre lì, comodo, disponibile ad esaudire la golosità di un momento che ti spingeva ad operare il furto in fretta, di nascosto, il che portava a tagli non perfetti che ti sentivi poi in dovere di raddrizzare per renderli invisibili. Insomma, leviga, leviga, la ciambella non aveva il problema della conservazione. Il clou era però intingerla, anzi, “pocciarla” nel vino, lambrusco, di una cantina che portava il nostro stesso cognome!
Per rispettare la tradizione, anch'io faccio la ciambella raramente, e questo rende la cosa un evento, così come il fare i tortellini a Natale. Anzi, nella mia curiosità per il cibo, nel mio desiderio sfrenato di provare ricette su ricette, quasi mi vergogno di aver tentato a volte altre ricette, altre strade, altre versioni. Macché, niente da fare. Buone tutte quante quelle ricette, ma non erano “la “ciambella”. Non erano la mano di mia madre che  rompeva decisa le uova, pesava la farina, mescolava l'impasto e scorreva avanti e indietro ad  imburrare la teglia. Non erano i sotterfugi dei miei fratelli per rubarsi gli zuccherini, per assaggiarla prima del tempo. Non erano il nostro essere assieme, tutti e cinque, attorno alla tavola per mangiarla. Non erano il nostro sentirci grandi per la concessione che ci veniva fatta di “pocciarla” nel vino, naturalmente annacquato.
Non erano noi. Ma basta poco. Basta riprendere in mano la ricetta, quella vera, impastare, accendere il forno e aspettare. Appena il profumo comincia ad espandersi,
mi ritrovo ragazzina, seduta a tavola con i miei fratelli, con la mamma e il babbo a fianco, a spazzolare la mia fetta di ciambella.
Perché un cibo fa ben di più che sfamarti, crea dei legami, traccia delle storie, traccia la tua storia. Un cibo e il suo profumo in particolare, ti entrano dentro, e come una sveglia squillante risvegliano la memoria, giocano con il tempo e gli spazi che credi non esistano più, colmano le assenze. E tutto ciò che hai amato torna vero, attuale, reale. Malinconia per il passato? No grazie, mi basta infornare una ciambella!
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