Nella lunga notte di Seul la commissione dell'Unesco decide per il sigillo di «patrimonio immateriale dell'umanità» Si prepara una grande festa a Capodimonte dove i maestri della Margherita attendono l'arrivo del ministro Franceschini La delegazione italiana invita a non trasformare la scelta dell'agenzia dell'Onu in un semplice marchio commerciale La pizza verso l'Olimpo dell'Arte Luciano P ignataro w". 1 riconoscimento dell'Arte del pizzaiolo napoletano è uno dei 35 fascicoli al vaglio dell'Unesco in queste ore a Seul. Arriva sull'onda lunga diuna mobilitazione popolare senza precedentinei qualirientrano la raccolta di due milioni di firme promossa dall'Associazione Pizzaioli Napoletani, la Fondazione Univerde presieduta dall'ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, dalla Coldiretti e dal Cna. Una raccolta a cui hanno partecipato in tanti è che è stato il motore di un fascicolo che ha avuto non poche insidie politiche e burocratiche. Come per esempio quella del ministero dei Beni Culturali che inizialmente non aveva appoggiato la proposta, una svista che viene corretta oggi dal ministro Dario France schini atteso a Capodimonte da alcuni pizzaioli (Enzo e Ciro Coccia, Ciro Oliva, Gino Sorbillo) per, si spera, festeggiare l'esito positivo della votazione. Una mobilitazione fatta di mille idee e iniziative, come il contest #pizzaUnesco promosso dal sito Mysocialrecipe di Francesca Marino a cui hanno preso parte 320 pizzaioli da tutto il Mondo. Non è stato un iter facile: inizialmente infatti si era pensato diproporre la Pizza Stg come Patrimonio immateriale dell'umanità riconosciuto dall'Unesco, ma si è visto ben presto che non si sarebbe andati lontano tenendo la barra in questa direzione perché considerata una operazione troppo commerciale. Quindi il ragionamento si è spostato sull'Arte del pizzaiolo napoletano, qualcosa che può sembrare difficile da definire e che invece è nel sangue di tutti quelli che lavorano vicino a un forno a legna: la lievitazione dell'impasto che tiene conto delle variabili legate alla temperatura e alla umidità, il gesto di stagliare i panetti, ammazzare, estenderlo con la tecnica dello schiaffo, l'atto di cuocere la pizza in un forno pensato per questo prodotto con la bocca a mezzaluna che consente di arrivare vicino ai 500 gradi. Tutti gesti che non si imparano in laboratorio o in improvvisate università, ma che sono parte della tradizione di un popolo che è stato capace di fondere acqua, farina, olio, pomodoro e origano in qualcosa che non è la somma di questi prodotti, bensì in un cibo nuovo, unico, tipico e inconfondibile. Un sapere che si è sedimentato in tre secoli, che non poteva non nascere in una città come Napoli, grande, grandissima, dove il problema sino agli anni '60 è stata la fame atavica, una gastronomia improntata non sulla carne ma sul desiderio di carne (cosa sono, altrimenti, ragù e genovese, o le polpette di pane o la cultura delle interiora?). Tutto questo è approdato all'Unesco in una maniera meno facile del previsto perché i primi da convincere sono stati proprio gli italiani. C'erano infatti altre candidature e non tutti erano convinti nel sostenere le ragioni della pizza in sede internazionale con varie motivazioni. Superato lo scoglio nazionale c'è stato il confronto in sede Unesco, un lavoro diplomatico lungo e difficile per conquistare i voti, come quelli degli stati africani, che guardano sempre con sospetto alle iniziative occidentali. Il fascicolo è stato discusso a novembre a Parigi in sede di commissione ed è stato dato parare favorevole, ma Pier Luigi Petrillo, il capo della delegazione italiana a Seul che ha seguito tutto il dossier, non si stanca di lanciare messaggi di prudenza, sottolineando come sino alla proclamazione ufficiale prevista per sabato 9 nulla è certo: «Sono rigorosamente da evitareha scritto in una nota ufficiale perché potrebbero essere dannosi per il nostro elemento, ogni iniziativa e ogni comunicazione che veda come protagonista la pizza e non il pizzaiuolo, che consista in distribuzione di pizze o nella esaltazione dei prodotti piuttosto che degli uomini che manipolano quei prodotti. Come ho detto più volte la pizza non è candidata. L'Unesco non è una certificazione di qualità, non è una certificazione di origine, non è una lista di prodotti tipici. Ad essere oggetto di valutazione è l'espressione culturale di una comunità, quella napoletana». Bisogna evitare, conclude Petrillo, che si festeggi con una «pizziata» generale perché la Dieta Mediterranea stava saltando dopo laspaghettata in Campidoglio. Ma sappiamo che non appena cì sarà l'esito del voto sarà impossibile contenere la gioia in città come dei pizzaioli che sono andati a seguire l'iter a Seul, tra cui Antonio Pace dell'Avpn e Sergio Miccù dell'Apn. E la cittàsi ritroverà ad aver vinto qualcosa di unico che la rende famosa ovunque insieme alla sua musica: quel cibo povero che è sempre piaciuto anche ai ricchi. La pizza, il simbolo dell'unica volta in cui le classi sociali più deboli hanno vinto costruendo sulle loro abitudini l' identità di tutta la comunità. Già, perché a Napoli, almeno a tavola, hanno vinto i poveri. RIPRODUZIONE RISERVATA storico Giuseppe Galasso. O troppo in anticipo o troppo in ritardo. Fatto sta che questo cibo di strada, economico e gustoso, veloce e parsimonioso, flessibile e interinale, adatto a tutte le stagioni, ha fatto centro nel cuore e nella mentalità della città, che in solitario ha scommesso su questo capolavoro dell'arte povera, anche quando il resto d'Italia lo guardava dall'alto in basso. Tanto che iprimi pizzaioli che hanno tentato di aprire dei locali fuori dallo specchio di Partenope hanno miseramente fallito. L'autrice del Ventre di Napoli, nonché fondatrice del Mattino, lo spiegava dicendo che evidentemente la pizza era una pianta esotica, che non poteva ambientarsi in altri climi. Oggi sarebbe sorpresa e certamente lieta di sapere che invece la storia di questi artigiani che hanno inventato uno dei capolavori dell'arte di arrangiarsi a tavola, non solo è diventata un cibo planetario, tra i più amati al mondo, ma anche un hardware gastronomico compatibile con qualsiasi software. Perché un po' tutti i popoli e tutte le classi sociali se la sono accunciata a modo loro. Chi facendola diventare etnica, come la pizzaBollywood, con pollo e curry, chi con ingredienti raffinati come lardo di Colonnata e provolone del Monaco. Ma sempre pizza resta. Ma cosa potrebbe succedere all'arte dei pizzaiuoli napoletani se diventasse davvero patrimonio dell'umanità? Cioè se le 24 nazioni, di cui solo due europee, che sono presenti nel comitato intergovernativo riunito a Seul, in Corea, riconoscesse il valore storico antropologico di questo mestiere che non è un mestiere, ma una condizione umana? Certamente crescerebbe la reputazione della città, cioè aumenterebbe quello che viene definito il soft power, quella sorta di potere di seduzione che hanno certe tradizioni, costumi, invenzioni e arti. Si creerebbe un'aura positiva intorno ad una tipologia di produttori di cibo che da ahneno tre secoli stanno affinando tecniche culinarie per sfornare pasti buoni, a prezzi democratici, che favoriscono lo scambio sociale, con un impatto ambientale ridotto. E soprattutto hanno creato un confort food interclassista, Perché il piacere condiviso è una delle componenti di questo bene immateriale, come viene definito dall'Unesco, che ha creato una categoria a parte per identificare nella storia dei popoli quei beni che fanno bene a tutti. Che favoriscono lo scambio tra le culture. Che includono e non escludono. E la creatività di questi napoletani con le mani in pasta ha inventato quello che non esisteva. Un disco bianco sul quale scrivere la propria e le altrui storie. Senza mai rivendicarne la proprietà. Così se le pizzerie stanno già tirando la volata al turismo gastronomico in Campania e non solo, senza dubbio il prestigio del riconoscimento potrebbe avere un effetto straordinario su tutta la filiera. Perché ci sarà sempre qualcuno che vorrà assaggiare una pizza fatta ad arte. Dal golfo al globo. 
La pizza verso l'Olimpo dell'Arte